LA VITA NEI CAMPI PROFUGHI DELLA TURCHIA: un resoconto di prima mano del conflitto siriano
«Nel mese di marzo cadrà il terzo anniversario della guerra in corso in Siria, un conflitto che ha già prodotto centinaia di migliaia di sfollati di tutte le età. Tutto è iniziato con proteste pacifiche in cui si chiedeva libertà e dignità; il governo ha risposto con la violenza arrestando, torturando e sparando ai dimostranti. Questa violenta reazione delle forze di sicurezza ha fatto esplodere la rabbia popolare e le manifestazioni si sono diffuse in tutto il paese. A ciò il governo ha reagito con un’ulteriore stretta, inviando nelle città mezzi militari e forze armate per porre fine alle proteste. Man mano che la situazione si deteriorava, e sempre più persone vedevano cadere familiari e amici, alcuni attivisti hanno imbracciato le armi e hanno iniziato a combattere il regime. Purtroppo, questa lotta è ancora in corso, con spargimenti di sangue quotidiani. Il numero dei fuggiaschi verso i paesi confinanti (Turchia, Libano e Giordania) e attualmente sistemati in campi profughi allestiti in quei paesi è stimato sul milione di unità, di cui circa la metà sono bambini. Il conflitto ha creato una crisi umanitariana gravissima sia per i rifugiati che per i paesi che li accolgono. Ho quindi deciso di esplorare questi campi per vedere con i miei occhi cosa sta accadendo, per scoprire la realtà e verificare la situazione dei rifuguati parlando con i diretti interessati, ascoltando le loro storie e le loro opinioni sul modo in cui sopravvivono, su come vengono trattati e quali difficoltà si trovano ad affrontare giorno dopo giorno. Racconterò l’esperienza che ho vissuto recandomi nei campi nella Turchia meridionale e in Libano. Tanto per cominciare, quando si arriva per la prima volta nell’area di un campo profughi, sembra proprio di entrare in una prigione. L’area è completamente circondata da un’alta e possente recinzione, come se fosse una zona militare. È infatti una zona controllata dall’esercito, il cui accesso è precluso a chi proviene dall’esterno. Le autorità turche dicono che vogliono tutelare la sicurezza di vive nel campo. Ciononostante, il governo turco ha iniziato a permettere ai residenti di uscire per fare acquisti o per visitare parenti che vivono in altri campi. I rifugiati riferiscono di essere trattati come prigionieri. Per molti, arrivare qui fuggendo la guerra in Siria è come spostarsi da una prigione all’altra. La gente è convinta che il divieto imposto ai media di accedere a questi luoghi è dovuto al desiderio dei governi ospitanti di distogliere l’attenzione da questa problematica; il loro principale obiettivo non è di migliorare la situazione dei singoli all’interno dei campi, ma di fare in modo che tornino alle loro case. Il campo di Yayladagi è uno di quelli che ho visitato. È una vecchia fabbrica di tabacco a due piani, situtata a meno di cinque chilometri dal confine siriano. Il campo è solo uno tra i tanti che sorgono lungo il confine turco-siriano. Quando l’ho visitato, il campo era completamente chiuso e l’accesso era vietato. Ho cercato di convincere la polizia a lasciarmi entrare ma non mi hanno creduto quando ho spiegato la ragione della mia richiesta, e cioè che volevo dare una mano ai rifugiati e documentare le loro condizioni di vita. Non appena ho iniziato a scattare fotografie dell’area, i poliziotti mi hanno urlato che era proibito. Mi sono quindi messo a cercare i rifugiati fuori del campo. Quelli con cui ho parlato erano molto depressi e preocupati dell’esistenza che conducevano all’interno dei campi; si lamentavano soprattutto che le autorità ospitanti non intendevano concedergli lo status di rifugiati, necessario per vedersi riconosciuto il diritto a lavorare e a stabilirsi nel paese. Ma il governo...
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