Nel mio quartiere c’è Prabin. È yogi e giostraio, è venuto dal Nepal insieme al fratello. Due fratelli nepalesi, arrivati in Italia, nella mia città, chissà come, chissà perché. Due fratelli, come capita anche qui da noi, molto diversi l’uno dall’altro. Il suono dei loro nomi suona buffo alle nostre orecchie, ricorda un po’ quello di coppie celebri. Praolad è allegro, caciarone, ha subito imparato l’accento romanesco, si butta nella mischia quando i bambini che frequentano la giostra tirano fuori il pallone e giocano a calcio. Prabin, invece, è più posato, riflessivo, ama parlare del suo Paese, della sua cultura ma anche degli eventi drammatici come il sisma che lo ha squassato nella primavera del 2015. Entrambi sono stati preziosi compagni di giochi dei miei figli che, così come accaduto a me quand’ero bambino, hanno passato lunghi, bellissimi pomeriggi nel piccolo parco dominato dalla giostra di Prabin & Praolad, i fratelli nepalesi. Adesso Praolad è andato via. Ha raggiunto alcuni parenti in Germania, ha imparato il tedesco e vuole mettersi in commercio. Vuole farsi “una posizione”. È rimasto Prabin ad occuparsi della giostra, dei bambini e dei genitori, nonni o babysitter che li accompagnano. È stato bello scoprire che no, non si accontenta di fare il giostraio, anche se è un lavoro che svolge con serietà, scrupolo, attenzione. Lui vuole migliorarsi, aspira a fare qualcosa di importante nella vita – deve perseguire il proprio karma, e il karma lo ha portato sui sentieri della meditazione, della pratica yoga. È così che il nostro amico è diventato yogi, ha preso un diploma, continua a studiare, a perfezionarsi.
Quest’estate farà un bellissimo viaggio nel sub-continente indiano. Un itinerario lungo le tante anime spirituali che popolano la grande India: la città sacra ai Sikh, Amritsar, nella parte indiana del Punjab, con il suo Golden Temple dove hanno luogo cerimonie piene di fiori e canti al suono di sitar, tabla e armonium; Rishikesh, alle pendici dell’Himalaya; Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, dove spera di poter vedere il Dalai Lama; Agra, sede del Taj Mahal; infine, Varanasi, sulle rive del Gange, sui cui ghat pire incessanti celebrano il culto dei morti. Ma è invece la vita, con le sue mille svolte, le sue pieghe nascoste dove sorgono nuove, inattese amicizie, che il nostro Prabin celebra.
Nel mio quartiere c’è Alì. Fa il barbiere, viene dall’Afghanistan. Più precisamente da Ghazni, città meno nota di questo Paese affascinante e sventurato. È un hazara, la stessa etnia del protagonista del libro e del film “Il cacciatore di aquiloni”. Immagino che la sua vita sia stata meno avventurosa, tuttavia il tono della voce che si abbassa quando gli si chiede della situazione afghana, che sappiamo essere di perenne guerra. I taliban prima, al-Qaeda poi, i miliziani di Daesh adesso… tutte creature degli apprendisti stregoni che, nel corso delle varie fasi storiche, hanno cercato di mettere le mani sull’Afghanistan, crocevia strategico malgrado lui.
È gentile Alì, si capisce che è un giovane ben educato; vorrebbe far venire in Italia il fratello minore, di 15 anni, ma non è facile ottenere il visto: le nostre Ambasciate sono ben istruite, giovani potenzialmente pericolosi, provenienti da terre in fiamme, devono essere filtrati il più possibile. Ma Alì non si abbatte, ha il suo lavoro, per il quale è giustamente stimato – chissà, l’arte di maneggiare rasoio e pettine deve essersi sviluppata particolarmente in Asia meridionale, visto che anche il quartiere multietnico attorno a Piazza Vittorio pullula di botteghe gestite da afghani, indiani, bengalesi… pezzi di mondo disposti tra di noi, in modo casuale, come tessere di un puzzle che non devono necessariamente andare a posto, perché questo è il disegno del nostro pianeta. Dei nostri Paesi. Del nostro quartiere.